aprile 26, 2014

25 Aprile, 31 Agosto

Questo è il testo che ho letto al MixArt di Pisa per la ricorrenza del 25 aprile.
Per chi non è potuto venire, lo metto qua. Dal vivo ho cambiato delle cose al volo, ma in sostanza, è questo qua.


E’ il 25 aprile. 
La guerra finisce. 
Mio padre mi ha raccontato tante cose della guerra ma di questo giorno, del 25 aprile, non mi ha parlato mai. 
Se lo ha fatto, perché forse, chissà, forse lo ha fatto, io non ascoltavo.

Quando mio padre mi parlava della guerra ero un ragazzo e i ragazzi, di solito, non hanno interesse per il passato. 
Del resto, come dargli torto, hanno il futuro con cui giocare a palla. Perché dovrebbero interessarsi del passato. E’ una roba da vecchi. La memoria.

Quindi mio padre forse mi ha raccontato cosa fece il 25 aprile. Forse, non lo so. Se lo ha fatto io non lo ricordo.

Mia madre adesso ha 92 anni. Si è rotta un femore e passa quasi tutto il giorno stesa sul letto. “Quasi” tutto il giorno, perché poi Tatiana, la badante che se ne prende cura come dovrei fare io, la fa alzare e la porta ogni giorno a fare un giro dell’isolato. 
Girano per le villette di Portallucca dove tanto ho giocato da ragazzino, dove Vito un giorno tirò una pallonata che andò a prendersi pieni i fili dell’alta tensione. 
Quei fili, in seguito alla pallonata, oscillarono, si toccarono esplosero in un San Ranieri di scintille e caddero giù, agitandosi come serpenti indispettiti, sputando scosse che potevano mandarci tutti all’altro mondo. 

Avevo dodici anni allora, giocavo a palla con il futuro. E dodici ne aveva Vito che era proprio in mezzo ai due cavi dell’alta tensione mentre ballavano, sospinti in alto e poi di nuovo a terra dagli sbalzi della corrente alternata. 
Memoria. 
Ricordo che Vito stava fermo, in mezzo ai fili, immobilizzato e salvato dalla paura. 
Noi ragazzi, (amici, si dice) eravamo a distanza di sicurezza e ridevamo. 
Nel mio ricordo Vito ha il pallone in mano. Fermo immobile con il pallone in mano in mezzo a quei serpenti elettrici, ma è possibile che sia un ricordo fasullo.
Memoria.

Mio padre era un cacciatore. Aveva alcuni fucili. Spesso andavo a maneggiare quei fucili. I fucili sono armi. C’erano anche le cartucce in giro per casa, senza protezione, di facile accesso,  ma per qualche motivo che non so, per quanto fossi un adolescente incosciente e stupido, non li ho mai caricati. 
Una volta sì, ne ho caricato uno ma non ero più un adolescente allora, ero un giovane uomo molto stupido. 
Lo caricai e lo puntai ad una persona. Questo fanno le armi, in mano agli stupidi.
Però non sparai, altrimenti ora sarei un uomo appena uscito di galera, magari un uomo con qualcosa di interessante da raccontare.
Fucili. Ricordi.
In casa dei miei genitori c’era questa fotografia che ritraeva un serpente morto. Il serpente era inquadrato dall’alto, la testa gli era stata spappolata da un colpo di fucile. 
Ai lati dell’inquadratura si vedevano un paio di sandali con gli occhi. Piedi di bambino. 
Ricordavo bene il momento in cui era stata scattata quella fotografia. Eravamo in montagna, era apparsa una vipera e mio padre le aveva fatto saltare la testa con una fucilata. Aveva sparato a pochi centimetri dai miei piedini con i sandali con gli occhi, salvandomi di fatto, la vita.
Solo di recente ho scoperto che quei piedi, quei sandali, nella fotografia, non sono i miei. 
Sono quelli di mia sorella Cristina. Non ero ancora nato quando quella foto fu scattata. Il mio era un ricordo fasullo, costruito negli anni d’infanzia, guardando quell’immagine, nel cassetto delle fotografie.
Forse volevo solo che mio padre fosse un eroe indiscusso.

Mio padre aveva molte cose da raccontare. 
Anzi, non molte. Una cosa che mi incuriosisce sempre è l’operazione di riduzione dei ricordi che fanno i vecchi. Hanno vissuto ottanta, novantanni, ma quando poi raccontano, automaticamente, credo, riducono i ricordi ad un copione ristretto. 
Mio padre, alla fine, se ci penso, raccontava sempre gli stessi episodi. 
Mia madre, che da quando mio padre non c’è più non ha mai smesso di piangerlo, di lui ricorda sempre gli stessi episodi, o almeno, pronuncia sempre gli stessi episodi. 
Credo che ve ne siano altri, nei suoi pensieri e credo che siano solo suoi. Immagino.

Mia madre non mi ha mai raccontato del 25 aprile. Della liberazione. Per questo io non so niente del 25 aprile. Mio padre non mi ha mai raccontato niente del 25 aprile e non lo ha fatto neanche mia madre. E se lo hanno fatto non stavo ascoltando.

Mia madre e mio padre raccontavano sempre del 31 agosto del 1943, non del 25 aprile del 1945, ma del 31 agosto 1943, quando Pisa venne bombardata. 
Mia madre dice che morirono 5000 persone in cinque minuti. Non so se il dato corrisponda a verità e non mi interessa. 

Quel giorno mia madre era in casa con sua madre, che poi sarebbe divenuta mia nonna, la nonna Cesarina, ed una cugina incinta. Una cugina di La Spezia, incinta. 
Non so come si chiamasse questa cugina. Non l’ho mai domandato. Se mia madre me lo ha detto, e di certo me lo ha detto, l’ho dimenticato. Forse non stavo ascoltando. Forse non stavo ascoltando abbastanza.

E’ il 31 agosto del 1943. E’ agosto e fa caldo e mia madre con sua madre e questa cugina incinta di La Spezia stanno in una casa nella zona della stazione. 
Possiamo immaginare che le finestre siano aperte. E’ agosto. fa caldo.
Mia madre racconta che in quel periodo suonava spesso l’allarme antiaereo ma poi gli aerei non arrivavano mai. Così, come fanno le persone di solito, mentre ai primi allarmi tutti correvano nei rifugi a tremare aspettando le bombe, dopo un po’ al rifugio smisero di andare.

Suona l’allarme, di nuovo. E’ un’abitudine. Una precauzione, grazie del pensiero ma tanto si sa che poi non arriveranno aerei americani a bombardare.

Gli americani, in quel momento della storia sono, i buoni. 
Rimarranno i buoni fino ad oggi, con qualche alto e basso dovuto alla guerra del Vietnam, a qualche colpo di stato nell’America latina, alla guerra a casaccio in irak, la seconda dico, alle stragi ai matrimoni con droni in Afghanistan, alle torture di Abu Graib, a quelle di Guantanamo. Comunque pure i buoni hanno i loro difetti. Il bene puro non esiste si deve prendere quello che passa il convento, e poi ai buoni si perdona tutto. 

In quel momento però gli americani sono proprio buoni, anche perché spesso il bene si definisce paragonandolo a un male, affiancandolo e guardando le differenze e, diciamolo, quando dall’altra parte hai il terzo Reich, essere buoni diventa un’operazione abbastanza facile, naturale, diciamo, a meno di non avere simpatie per Alba Dorata.

Quindi mia madre e la cugina e quella che sarebbe diventata, nel 1963, mia nonna, sono in questa casa calda in zona stazione. 
Gli americani invece sono su nel cielo con i loro B29 o B52 o B qualcos’altro ma mia madre ricorda bene il nome di quei B qualcosa, le Fortezze volanti. Tante volte mi parlerà delle Fortezze volanti. del rumore inconfondibile delle Fortezze volanti.

E’ agosto, fa caldo, la cugina incinta se ne sta là con il suo pancione e ho l’impressione di vedere queste tre donne attraverso una finestra. Immagino una tendina che svolazza alla finestra, è semitrasparente e giallina, questa tendina che svolazza alla finestra. Loro sono lì.

Secondo la teoria dei multiversi in ogni istante della nostra vita, in un universo parallelo, si verifica ogni condizione possibile, quindi immagino che in uno degli infiniti universi paralleli in quel momento, in quella casa, una caffettiera soffi e fischi e annunci il caffè. In quell’universo parallelo le tre donne siedono a un tavolo, parlano del bambino che nascerà, la futura madre sorride e si lamenta del marito pigro.

In quell’universo parallelo l’allarme antiaereo comincia a suonare e si commenta che di nuovo suona questo inutile allarme antiaereo che per fortuna, grazie a Dio, non succederà niente neanche stavolta. Grazie a dio.
Dio, devo dire, con la questione dei multiversi, gli universi paralleli, potrebbe avere qualche difficoltà di collocazione, ma questa è un’altra storia. 
Finisce l’allarme, torna l’afa silente di quel 31 agosto, in quell’universo parallelo. 

In quello che è toccato in sorte a noi, adesso, in questo, arriva un rombo in cielo.
Mia madre dopo tutti questi anni continua a ricordarlo quel rombo e dice: era il rumore inconfondibile delle fortezze volanti.
Nelle pance delle fortezze volanti, dovete pensare, ci sono tonnellate di bombe. 
Quelle bombe, che sono però bombe dei buoni, sono state costruite in fabbriche degli Stati Uniti da tanti operai che a modo loro, hanno servito la causa dei buoni. 
Queste persone, in quel momento, immagino, avranno già dimenticato il momento esatto in cui hanno confezionato una delle bombe che adesso stanno nella pancia della fortezza volante che proprio adesso, in quel 31 agosto, sta volando perpendicolare sulla casa di mia mamma, vicino alla stazione. 

Sono abbastanza sicuro che quelle buone persone, in quel momento, abbiano dimenticato il giorno in cui hanno confezionato quella bomba, apponendo l’ultima vite, l’ultimo ribattino. 
Adesso quella bomba è così lontana. Oltre l’oceano, su una nazione pittoresca, nella pancia di un aereo, vola. 
Si aprono i portelli.
Penso che pure il soldato giovane e giocherellone ben determinato a contribuire alla vittoria del grande paese che gli ha dato i natali abbia dimenticato la frase che con un gesso ha voluto scrivere su quella bomba.
Questa è una cosa che gli uomini fanno. Scrivono messaggi sulle bombe. Roba come: “Ciucciati questa Adolfo!” o “Saluti dal Wisconsin” immagino.
Non c’è nessun Adolfo in quella casa nel quartiere della stazione. Sono tutte donne. Tre donne. Una è incinta. Una è mia madre. Una sarà mia nonna. Vent’anni dopo.

Immagino che vi siano degli Adolfo nei paraggi, dei piccoli bambini Adolfo, di certo ci sono molti Benito. Gli Adolfi sono rari. 
Non so voi ma io non ho mai conosciuto nessuno che si chiami Adolfo. Non credo che sia un caso. E in effetti non ho mai conosciuto neppure nessuno che si chiami Benito, ma credo che questo dipenda dalle frequentazioni che mi sono scelto. Una volta ho conosciuto un cane, un piccolo cane di piccola taglia, tutto nero, che il padrone aveva voluto chiamare Benito. Sono gusti.

Non ci sono Adolfi o Beniti nella casa di mia madre quando le pinze meccaniche che reggono la bomba nella pancia della fortezza volante allentano la presa.

Dov’è mio padre in quel momento? Nella casa sono solo donne. Mio padre è in ponte di mezzo, mi racconta. Mio padre lavora nel negozio di suo padre, quello che sarà mio nonno e che non conobbi mai. Mio nonno si chiamava Alfonso e di lui porto solo traccia nel nome. Mi hanno chiamato Gian Alfonso, per ricordarlo. Memoria del nome. 

Ma non so quasi niente di lui. Anzi sì, so che era un uomo intelligentissimo. 
Così ne parla mia madre. un uomo intransigente, difficile di carattere ma al quale mia madre sapeva tener testa. Perché “era intelligentissima anche lei”, dice mia madre e tra intelligentissimi ci si riconosce al volo e ci si teme.

Intelligentissime sono le bombe, i missili, che partono dai droni dei buoni americani dell’era moderna. Quando in Afganistan, per esempio, cadono su un matrimonio di innocenti, lo fanno per errore. 
Gli intelligentissimi, per quanto molto utili alla società, non sono al riparo dagli errori. Si sa.

Stupide erano invece le bombe del 1943. Stupida è la bomba che con un fischio straccia le poche nubi d’un cielo azzurro di un agosto pisano. Il cielo è azzurro per chi guarda in alto. 
Mio padre in quel momento guarda in alto e il cielo è azzurro con due nubiciattole ininfluenti e quindi vede gli aerei, punti in cielo, vede, sente, diciamo, le bombe cadere. 

Per il puntatore addetto allo sgancio delle bombe sulla fortezza volante invece il cielo semplicemente non è. 
Rannicchiato nella sua posizione, occhio incollato al visore lui vede solo la terra. E quella terra è incroci di strade e linee e un fiume e una riga scura che è la ferrovia, parallelepipedi indistinti sono le fabbriche, gli edifici, la Saint Gobain, la stazione ferroviaria, i suoi obiettivi.
Memoria.

Ricordo ora che nel racconto di mia madre c’è una quarta persona. Perché l’ho dimenticata? E’ così importante. Ho visto una foto. Solo una. C’è solo una foto o almeno io ne ho vista solo una. E’ il padre di mia madre. Quello che sarebbe potuto essere mio nonno. Un altro nonno.

Dai racconti di mia madre so che è un uomo taciturno, che non parla mai e che mia madre lamenta di non essere riuscita a conoscere davvero.
Non so niente di lui. Sembra che nessuno sappia niente di lui, ma credo che sia stato amato, mia nonna Cesarina restò vedova per sempre. Forse non lo dimenticò mai. Forse non era solo taciturno e duro come dice mia madre, doveva avere delle qualità. Ho visto una foto. Abbiamo la stessa fronte.

C’è anche mio nonno in quella casa con le tre donne. Ai fini di un organizzazione estetica dei miei ricordi era stato escluso, ma diciamo che entra in scena adesso, lo vedo attraverso la finestra con la tendina che svolazza. Forse era in una camera a riposare, mio nonno è un ferroviere. Forse l’allarme lo ha svegliato. 
Suona l’allarme e nessuno vuole preoccuparsi perché questo allarme suona da mesi e non succede mai niente ma mio nonno non ci sta. Dice che si deve andare al rifugio. Ma no, questo allarme suona sempre e non succede mai niente e poi fa caldo e la cugina è incinta. Vedo una discussione in quella cucina. 

Mio nonno si impunta, prende la figlia, mia madre, e la porta fuori, verso il rifugio. 
Le altre due donne restano in casa. E non c’è tempo. Arriva il rombo degli aerei, non c’è tempo per andare al rifugio. C’è un ricovero per conigli. Mio nonno infila la giovane figlia, mia madre diciottenne in quel rifugio, in mezzo ai conigli. Vedo le orecchie dei conigli, vedo mia madre accucciata tra i conigli, vedo mio nonno accucciato con mia madre tra i conigli. 
Il cielo è pieno di motori di aereo. 

E poi c’è quella bomba. Ricordate, quella bomba con qualche saluto dal Wisconsin che scende dritta dal cielo? Ci sono altre bombe sorelle che scendono con lei ma in questo ricordo ci concentriamo solo su una. Quella bomba, dall’occhio del puntatore addetto allo sgancio delle bombe scende verticale sulla casa di mia madre. Sulla casa di mio nonno. Sulla casa di mia nonna. Sulla cugina di La Spezia incinta. 
La bomba centra il tetto. Lo buca. E quando lo fa, non so esattamente con quale coordinazione di momenti ma mio nonno se ne avvede, insomma vede una bomba che gli centra la casa, con la moglie dentro. 
La figlia è accanto a lui, in un rifugio per conigli di lamiera e rete di ferro.
Così si alza in piedi mio nonno, lasciando il riparo, per dire due parole. 
Questo mi racconta mia madre. Nonno si alza e dice “la mamma”. Non dice la moglie. Dice la mamma. Altri tempi.
Dice questo. Poi la bomba colpisce la casa, esplode e lancia uno schiaffo d’aria mossa che spazza via il giardino intorno, fino al rifugio per conigli e come una grande mano invisibile e letale spazza via mio nonno. 
Inizia la danza. 
Che figata la guerra. 
Cadono bombe tutto intorno, crollano case, l’aria diventa polvere, timpani stracciati e grida e fuoco. 
Crolla il rifugio per conigli, si attorciglia e fonde, la rete diventa quello che alla fine, almeno per i conigli è sempre stata: una gabbia. 
Mia madre, chiusa, nella gabbia, viene schiacciata da detriti, lamiere, cemento e pietre rilasciate nuovamente dal cielo, strappate dalle case circostanti. Tutto diventa buio.

Mio padre vede le bombe cadere in ponte di mezzo. Ma sono distanti da lui. Quello che lo accoglie quando arriva in corsa, perché questo dice nei suoi racconti, che lui va verso le esplosioni, non si allontana. O forse prima si allontana e poi torna, quando le esplosioni si sono placate e Pisa è una rovina ammantata in una nuvola di polvere. Lui mi racconta di questa polvere, questa nuvola che noi moderni abbiamo potuto vedere, per esempio, credo, in forma similare, nei filmati dell’11 settembre del 2001, in televisione.

Mio padre va verso questa lenta tempesta di polvere che avvolge il ponte e mi dice che da quella polvere, dal fumo, sul ponte, vede spuntare degli uomini con la testa tutta gonfia e nera.

Io sono un bambino la prima volta che ascolto questo racconto. Mio padre in quel momento, nella cucina della nostra bella casa a portallucca probabilmente non lo sa, ma sta formando la mia immaginazione con quel racconto di morte e il fascino che quella memoria avrà sul mio cervello in formazione mi condizionerà forse per sempre, facendomi preferire, da allora, forse per sempre, il racconto delle cose alle cose.

Dice mio padre, che chiamerò S. per comodità di narrazione, dice che dal fumo che in quel momento sta avvolgendo il ponte spuntano degli uomini con la testa tutta gonfia e nera. Quando lo racconta S. mima il movimento di queste persone, perché questi uomini che spuntano dal fumo con la testa tutta gonfia e nera si muovono così. E ondeggia, piano.
Adesso potremmo dire che si muovono come gli zombie dei film di zombie prima che gli zombie dei film di zombie mutassero e diventassero rapidissimi e rabbiosi. Come gli zombie di un tempo, i bei zombi di una volta, che si muovevano piano, ondeggiando, nei supermercati.
Memoria.
Così S. mi dice, mimando, che dal fumo che in quel momento sta invadendo il ponte, spuntano degli uomini con la testa tutta gonfia e nera.
Barcollano e cadono giù.

Uno di questi uomini, mi dice S. cade seduto con la schiena appoggiata a un muretto, forse il muretto era una spalletta dell’Arno, non lo so. 
S. dice, che quest’uomo cade con la schiena appoggiata ad un muretto, un muretto normalissimo ed S. si avvicina e vede che nella testa dell’uomo c’è un buco grande come un pugno e accanto all’uomo seduto per terra con la schiena appoggiata al muretto c’è una roba che S. riconosce essere cervello. Il cervello dell’uomo uscito dal buco che ha nella testa. 
Che figata la guerra.
S. indugia e mi racconta che non si spaventa, si avvicina invece, e vuole aiutare quest’uomo e l’unica cosa che gli viene in mente di fare (S. non è un dottore, lavora con suo padre, mio nonno, in un negozio di ottica in corso Italia non sa niente di cervelli fuori dalla scatola cranica) l’unica cosa che gli viene in mente di fare è di raccogliere questa roba da terra, questi pezzi di cervello e provare a rimetterli al loro posto, attraverso il buco. 
Poi l’uomo con la testa tutta gonfia e nera, finisce la sua vita lì. Con il culo per terra e la schiena appoggiata ad un muretto normalissimo.
Chissà chi era, quell’uomo. Chissà cosa è diventato, in un universo parallelo.
Però, dice S. mio padre, è stato meglio per lui. E’stato meglio che sia morto, visto lo stato in cui era in questo universo.

S. si rialza. Polvere e fumo si stanno diradando e lui si guarda intorno, guarda la città e non la riconosce più. Mi dice che incroci e strade non ci sono più. Sembra azzerata la geografia, i punti cardinali, le direzioni, l’orientamento, è tutto andato a puttane. Non si capisce niente. Dov’è il suo amore, quella che sarà mia madre. E’ nel quartiere della stazione, le stazioni sono obiettivi militari, hanno bombardato la stazione.

S. quindi corre in questa città che non si riconosce più e va verso la casa della sua fidanzata. E la casa, anche quella non c’è più e il suo cuore si spezza in uno spezzarsi di migliaia di cuori tutti nello stesso momento e adesso mi viene da domandarmi se quel rumore, se quello spezzarsi di tanti cuori di tante famiglie tutte nello stesso momento non abbia prodotto un qualche suono, un rumore, un crac tangibile, anche su, nell’alto dei cieli, fino alle orecchie dei buoni che nelle loro fortezze volanti stanno adesso virando, mentre parlano via radio, mentre tornano alla loro casa temporanea, alla base di partenza, nel nord Africa, contenti che sia andato tutto bene. Obiettivo centrato, si torna a casa.

La teoria dei multiversi dice che tutto succede in ogni istante in ogni possibile combinazione di eventi, all’infinito. Quindi in un altro universo parallelo, la bomba sulla casa di mia madre non cadde mai. In un altro cadde e miracolosamente non esplose, in un altro ancora esplose uccidendo tutti, in quel multiverso io non esisto, voi non siete qui ad ascoltare questo racconto.

Eppure, mi viene da pensare ora, non c’è bisogno di scomodare la teoria dei multiversi per immaginare che, a volte, nello stesso universo possano convivere realtà differenti e distanti. Gli avieri dello stormo di bombardieri tornano verso la loro base in nord Africa. Non hanno avuto resistenze. Minima contraerea, nessun caccia Messerschmidt tedesco o goffi intercettori Caproni gli hanno cagato il cazzo. Tutto bene. E’ andato tutto bene. Si torna a casa. Un altra vita. 

Mentre S. trova la casa della fidanzata crollata e pensa: è morta. Nella confusione, nelle grida, si sono soldati tedeschi che scavano e aiutano i pisani a estrarre feriti e morti dalle macerie, con una naturale priorità per i feriti e buona pace per i morti.
C’è un soldatino tedesco. Così viene chiamato nei racconti di famiglia. Un soldatino tedesco scava e trova mia madre. E mio padre arriva in quel momento e insieme al soldatino tedesco scava pure lui e mia madre è viva. Non ha niente, solo un graffio ad un gomito, il gomito, sul braccio, le è rimasto fuori dal gabbione dei conigli e si è graffiato.
La casa invece non c’è più.
Chissà chi era quel soldatino tedesco.

E allora si corre a quel che resta della casa e si trova la nonna, che è ferita, ma è viva. In un universo parallelo, nonostante l’esplosione, è viva anche la cugina di La Spezia e non ha neppure perduto il bambino, è andato tutto bene. La casa si ricostruirà, nascerà un figlio che crescerà, darà grandissime soddisfazioni e addirittura, una volta cresciuto, si farà dottore e pensate un po’ sarà proprio lui a guadagnarsi quel gran premio per la medicina,  per quella incredibile scoperta meravigliosa per la cura dei tumori.

In questo universo, in quello dove io leggo e voi ascoltate, la cugina di La Spezia è morta.
In questo universo il padre di mia madre non si trova più L’ultima volta che questo universo lo ha visto si stava alzando in piedi e diceva “la mamma”. Ora non c’è più. Non si trova più . 
Lo spostamento d’aria lo ha portato via. Come una foglia.

Mio padre ha una sorella forte, si chiama Alfonsa, in questo universo ha figliato quelli che sono i miei cugini e pure loro sono forti e belli e negli anni, poi hanno figliato anche loro e, indovinate un po’, hanno avuto figli altrettanto belli e forti.
La sorella di mio padre si chiama Alfonsa ed è con lei, che è forte d’animo e non ha paura di niente che mia madre comincia a cercare il padre rapito dallo spostamento d’aria.

Mia madre mi racconta che a sera, infine, si trovarono a cercarlo tra i morti. C’erano questi corpi stesi, non mi ha mai detto dove o se lo ha detto, non sono stato attento, c’erano questi corpi stesi a terra coperti con dei lenzuoli e mia zia Alfonsa andava sollevare i lenzuoli per vedere se trovava mio nonno, il padre di mia madre. Mia madre mi dice che questa cosa del sollevare le lenzuola, la faceva la zia Alfonsa, che è una donna forte, perché lei, mia madre non ce la faceva. Non ce lafaceva a sollevare un lenzuolo.

Mio nonno non stava là. 
Finiti i lenzuoli, c’erano solo cari di altri. Altre lacrime, ma non quelle di mia madre. Mio nonno venne trovato in un ospedale. Qualcuno lo aveva trovato e lo aveva portato là.
Mia madre dice che non aveva niente, sembrava intatto. Non aveva niente fuori, ma lo spostamento d’aria lo aveva fracassato dentro. Questo fanno le bombe, anche quando non ti colpiscono personalmente. 
Non so quanti giorni dopo morì. Mia madre di sicuro me lo ha detto ma devo averlo dimenticato. 
Memoria.
Comunque nonno, morì.

Una volta portai mia madre a mangiare in un ristorantino a dieci euro dove vanno quelli che lavorano alla Saint Gobain e che  mangiano alla svelta, pagano dieci euro e se ne tornano al lavoro. Lei si mise a raccontarmi di quel 31 agosto. 
Mia madre non mi ha mai raccontato niente del 25 aprile. Mi ha sempre raccontato del 31 agosto. 
Ora io sono qui ed ho la netta sensazione di essere venuto nel giorno sbagliato.

Era la millesima volta che mi raccontava del bombardamento ed era la prima volta che io le rispondevo con una domanda. Volli chiederle come si era sentita dopo. Insomma, tu sei a casa, immaginate, siete a casa vostra, con qualche parente, caffè sul fuoco, agosto, aria calda che entra dalla finestra, tendina che svolazza, chiacchiere, progetti, mal di testa, magari, non lo so. Siete lì che fate quella cosa che facciamo sempre, tutti, anche quando non ce ne rendiamo conto, siete lì e state vivendo. E poi, dal cielo, altre persone, in tutto e per tutto identiche a voi, appartenenti allo stesso multiverso, con le stesse gambe, le stesse braccia, la stessa faccia, vi lasciano cadere una bomba sulla casa. 
Come ti senti dopo?

Una volta mia madre mi disse che non si aspettava che la casa sarebbe stata bombardata. Eppure c’era la seconda guerra mondiale. Non era nei libri, era intorno a lei. 
C’era quel cazzone intronato con i baffetti che aveva deciso di dominare l’europa e sterminare ebrei, zingari, omosessuali, ogni tipo di dissidente, insomma c’era la seconda guerra mondiale eppure lei non si aspettava che le bombardassero la casa. 
Ora dico io, va bene pensare sempre di essere speciali, ma bisogna essere stupidi per, come dice lei, stupirsi che una bomba a un certo punto ti centri la casa.
Ricordo che quando mia madre mi parlò del suo stupore pensai questo. Che fosse stupida. Poi, detti un morso a un pezzo di schiacciata, la guardai, spaesata e vecchia tra gli operai, e mi fermai e pensai che avesse ragione. Che era giusto il suo stupore. Come può un’ altra persona, identica a te in tutto e per tutto, tirarti una bomba sulla casa?

Leggendo storie della guerra dei balcani ho trovato testimonianze di persone che riportano lo stesso stupore. Da un giorno all’altro una guerra tra vicini di casa. Com’era possibile? 
Quel giorno, al ristorantino a dieci euro le chiesi come si era sentita dopo che la bomba aveva centrato la casa, uccidendo suo padre, la cugina e il bambino che portava in pancia, ferendo gravemente sua madre?
Lei mi rispose che aveva, da allora, cominciato a odiare tutto e tutti.

Mi disse anche che poi mio padre, il suo fidanzato di allora, la portò nella sua casa, con tutti i suoi fratelli e i suoi cugini e che quella casa era una casa allegra, dove le persone scherzavano sempre e sembravano non abbattersi mai, neppure in quei momenti, e c’erano un sacco di sorrisi e di affetto. 
Mi disse che quella casa, quelle persone con la loro allegria, nonostante tutto, le fecero ritrovare un po’ di pace. 
Che figata la pace.

Mia madre ha amato mio padre fino ad ora. Almeno, fin quando l’ho sentita, mezzora fa. Lo ha amato per sempre, credo si dica così.

Non ho mai saputo cosa hanno fatto il 25 aprile. Credo che non lo abbiano mai raccontato perché erano cazzi loro. Uno di quei ricordi che sono sicuro mia madre si porti nel cuore o in qualche posto della memoria alla quale noi figli non abbiamo accesso. Ma così, ad occhio, a pensarci adesso, secondo me, hanno festeggiato.




aprile 25, 2014

Il Landucci e il M5s alle europee


Pomeriggio standard di ragazzini. Bicicletta, nel caso mio fieramente da cross, presa al Camp Darby, la base militare americana, a Tirrenia. Presa grazie al padre di Steven, il mio amico americano, figlio di un pastore militare. Grazie a lui ai piedi ho le prime All Star alte di tutta Pisa. Cazzo, me ne vanterò per sempre. E non parlerò del primo skateboard. 
Steven, il mio amico l’americano, è in quel momento, l’apice della modernità nel mio quartiere. Io gli sto accanto e godo di riflesso con oggetti, parole, modi di dire. 
I giorni in cui lui comincerà a chiamarmi Ureccia, per via delle orecchie a sventola ed io “La bodda” per il suo sovrappeso, sono ancora lontani. 
In quel momento siamo molto amici. 
Abbiamo dodici anni. 
Pomeriggio standard di ragazzini. C’è sicuramente Alberto. Forse Vito, che in quel momento è il più basso di tutti e con gli anni diventerà forse il più alto, specializzandosi come medico che fa nascere bambini alle coppie che hanno difficoltà nel concepire.

Nella mia memoria siamo nelle vicinanze del passaggio a livello che divide il quartiere di Portallucca da quello de “I passi”. Portallucca è il quartiere dei benestanti, “I Passi” quello dei malestanti, e come un prodromo di quel che sempre più assomiglierà alla società moderna, sono divisi da una ferrovia. Ricchi da una parte, poveri dall’altra. 
Su questa ferrovia ci sono passaggi a livello con tempi lentissimi. Cominciano a mandare suoni di campanella con dieci minuti di anticipo. Si formano code di auto. Solo uno di questi passaggi a livello è di ultima generazione e rapidissimo. E’ qui che siamo, nel mio ricordo. Lo ammiriamo, domandandoci se esistano dei sensori sui binari che si attivano al passaggio del treno. 
Un minuto prima che arrivi il convoglio le sbarre si chiudono. Dieci secondi dopo che è passato, si riaprono. Ammiriamo la modernità, sulle nostre biciclette, un piede a terra, l’altro sul pedale, ingobbiti sui manubri pronti allo scatto.

E poi qualcuno di vedetta, come un suricato di città, lancia l’allarme. “Il Landucci!”, grida.
Il Landucci è un vecchio. Di lui niente si sa. Solo che passa, a volte, sulla via del passaggio a livello con una vecchia bici da uomo con freni a bacchetta. Una bici vecchia, che in quel momento non ha ancora il fascino del vintage. Il Landucci è un vecchio, su una bici da vecchio, con una borsa di cuoio messa a canna della bici. Una borsa vecchia e schifosa, come lui. 
Non sappiamo che mestiere fa, non sappiamo perché pedali tutto curvo in quel modo, se le sue notti e i suoi risvegli sono accompagnati dagli scricchiolii del mal di schiena, non sappiamo se ha figli, una moglie, se ne ha avuta una, se l’ha perduta, se ha pianto, se è rimasto solo. Che lavoro fece il Landucci? Fu impiegato? Costruttore, operaio, commerciante? Non sappiamo niente di lui.
Quello che sappiamo invece è che ogni volta che arriva, con la sua andatura dondolante, sulla vecchia bicicletta, qualcuno lancia l’allarme e noi, tutti noi ragazzini, veniamo presi da una furia irrefrenabile. 
Il Landucci non può attraversare illeso la nostra zona. Questo non è ammissibile. Perché è vecchio e forse malato ed è, a pensarci adesso, forse, un futuro possibile che nessuno di noi vuole vedere.
Non sappiamo niente del Landucci ma la sua semplice esistenza ci disturba. Se al mondo non esistessero Landucci, vecchi claudicanti con biciclette arrugginite noi potremmo immaginare di restare adolescenti per sempre, potremmo ignorare i processi che portano il ferro immarcescibile e immortale ad ossidarsi, sgretolarsi e svanire addirittura, nei decenni.
Il Landucci è la negazione vivente della nostra illusione di immortalità. 
Questo penso ora, non lo pensavo allora, è chiaro. Ero un ragazzino su una bici da cross gialla e le prime All Star alte ai piedi. 

Quando vediamo il Landucci scendiamo dalle bici. Cerchiamo dei sassi. Gli tiriamo i sassi urlandogli contro.
Ricordo che non lanciamo offese. Solo sassi e il nome. Gridiamo “Landucci!” e via sassate, come se in quel nome fosse contenuto tutto, un pacchetto completo di vecchiaia, malattia, debolezza, tempo perduto, tutto insieme. Una cosa che odiamo. 
“Landucci!” e sassate.

Non esiste, penso ora, una parola che il Landucci potrebbe pronunciare per fermarci. Non esiste un gesto. Potrebbe fermarsi, scendere, o scappare, non cambierebbe niente nella nostra percezione. Potrebbe avvicinarsi, parlarci, spiegarci, raccontarci tutto di se. Non lo perdoneremmo comunque.
Landucci! gridiamo. E sassate.

Me lo ricordo bestemmiare, imprecare contro il mondo nuovo che è costretto ad abitare. Un mondo diverso da quello in cui è cresciuto, un mondo in cui non c’è rispetto o comprensione per i vecchi, i deboli, i malati. Un mondo che ha modi e gusti incomprensibili. Questo è il mondo in cui, povero Landucci, gli è toccato di invecchiare. Maledetto il mondo.
Maledetto il mondo e maledetti noi. Ci maledice mentre pedala. Si incurva ancora di più sul manubrio della bicicletta per evitare i sassi e ci maledice, cercando di raggiungere un punto ics dove ci stancheremo di perseguitarlo. Una zona sicura.

Mai. Mai avrei immaginato, allora, che sarebbe arrivato il giorno in cui sarei finito dall’altra parte della specie umana. Saremmo stai giovani per sempre, io e i miei amici, non perché lo desiderassimo ma perché ci era sconosciuto il pensiero stesso dell’età, del tempo che passa. Eravamo energia pura, un energia azzurra, immortale, fatta della stessa materia del vento e delle onde di Marina. Non c’erano pensieri proiettati in avanti nel tempo, eravamo presente fatto carne. Comunque assolutamente, inevitabilmente vincenti. Nessuno di noi era malato gravemente, non c’erano dolori del risveglio, circolazioni sanguigne difettose, problemi con gli zuccheri, melanconie immotivate. Eravamo azione pura. Convinzione pura.

Ho scritto queste parole dopo aver visto il video dell’inno del M5s per le elezioni europee. Me ne vergogno, perché altre motivazioni si dovrebbero avere per scrivere cose che altre persone, fossero solo due, forse leggeranno.
Ma è andata così. Voglio raccontarvelo: Nel video si vedono tante persone che sbattono i pugni sul tavolo. C’è una canzone che accompagna questi pugni. Un montaggio fatto con spezzoni inviati dai vari sostenitori e simpatizzanti in giro per l’italia. Nel sottopancia del video ci sono impressi i luoghi di provenienza. Livorno: pugni sul tavolo. Cosenza: pugni sul tavolo. Roma: Pugni sul tavolo. Singoli, coppie, famiglie.
E’ un montaggio, un videoclip su una canzone che parla del bene e del male. Quelli che hanno fatto il video rappresentano il bene e la voce cantante sottolinea, nel ritornello: 

E sbatterò i miei pugni su quel tavolo
e urlerò tutta la rabbia che c'è in me
E lotterò con le mie forze contro il diavolo
del dio denaro che ha corrotto le anime”

Il diavolo. Le anime. Quando ho visto il video ho subito avuto un moto di fastidio. Tutti i pugni sul tavolo dovevano stare a tempo con il rullante della batteria, era chiaro l’intento, ma non ce n’era neppure uno che ci stesse giusto. 
Visto che mi diletto di montaggio e sono un precisino, mi sono subito girate le palle per questo.
Non ci vuole davvero niente a fare un montaggio mettendo i pugni sul tavolo a tempo con la musica. E poi, insomma, non si era deciso che le cose fatte bene sono meglio di quelle fatte male?
No. Fatto bene e fatto male sono diventate condizioni soggettive.
Poi mi sono girate le palle per la questione del Diavolo e delle anime perché continuo a coltivare il sogno di una società laica basata sulla razionalità dove il Diavolo e l’anima possono tranquillamente togliersi dai coglioni.
E poi mi sono girate le palle per la somiglianza degli atteggiamenti con i famigerati spot di Italia 1, dove spettatori anonimi, gente comune, si prodigava nell’inventare modi per pronunciare quelle due parole: “Italia Uno!” appunto, nel modo più singolare e curioso possibile.
Nel video accadeva la stessa cosa. Qualcuno muoveva le labbra, timidamente, sul testo della canzone. Una ragazza ballava come una ballerina di tv, altri facevano facce buffe o espressioni accigliate. E poi via, al momento sbagliato, anche se di poco, sempre sbagliato, a sbattere i pugni sul tavolo.
Quasi nessuno sbatteva i pugni con sincera energia. Appoggiavano i pugni sul tavolo, fieri e fuoritempo.

Avendo il vizio di Facebook ho voluto postarlo subito e mi sono messo a spremermi le meningi per trovare una battuta acuta e ficcante. Non me n’è venuta nessuna.
Ho passato minuti a pensare. Che spreco di tempo.
Ho avuto anche paura perché, al di là della bassa qualità del video, delle note, della voce cantante, delle mossette dei partecipanti, percepivo un odore di vittoria imminente.
Il famoso profumo di vittoria. Immagino.

I simpatizzanti del M5s tra gli altri modi di dire più diffusi, usano lo slogan “Vinciamo noi”. Credo che ci sia un punto esclamativo al termine dell’enunciato. “Vinciamo noi!”. 
In quel momento, vedendo il video, ho pensato che sì, era vero. Avrebbero vinto loro, qualsiasi cosa questo significasse.
Ho sbagliato il verbo, non avrebbero, avevano vinto loro. Avevano vinto perché erano perfettamente assolutamente contemporanei, fatti di una pasta e dotati di un gusto che mi risulta incomprensibile e forse per questo tanto mi disturba. 
Provai sensazioni simili nel 1994, quando Silvio Berlusconi vinse le elezioni ed io vidi, per la prima volta, i suoi sostenitori in Tv, persone tanto diverse da quelle che avevo in uso di frequentare. Persone con modalità di pensiero e gusti, che non riuscivo a comprendere e che, di conseguenza, disprezzavo.
Ho disprezzato, allo stesso modo, ognuna di quelle belle facce di persone di buona volontà che sono apparse nel video. Tutti quanti, anche i bambini. Ho detestato le capigliature, le basette e le barbe ricamate, gli aspetti curati, quelli trasandati, tutto quanto. Anche gli arredamenti sullo sfondo e le luci giallastre.
Ed è stato allora che sono diventato il Landucci. Mi sono sentito vecchio, in un mondo che genera atteggiamenti e modi che non capisco e che disprezzo.
Ho sentito le pietre future volarmi a pochi centimetri dalla testa. Quelle pietre erano gusti e modi che non comprenderò mai.
Il futuro prospettatomi dai movimenti, dalle espressioni delle persone presenti in quel video, mi faceva paura. Li ho immaginati al potere.
Ho preso la bicicletta allora e ho cominciato a pedalare per andare da un’altra parte. Una zona sicura.
Ho avuto l’impressione di sentire delle voci: Il Landucci! Dagli al Landucci!.
Io sono il Landucci. 

Così imparo.